La risarcibilità

  1. Il danno patrimoniale e non patrimoniale

 La risarcibilità del danno derivante da mobbing, può essere rivendicata dal dipendente interessato in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell’obbligo del datore di lavoro, riconducibile all’art. 2087 cod. civ., di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Nel nostro ordinamento, per garantire la convivenza tra i membri della collettività, vige il principio dove ognuno deve comportarsi in modo tale da non recare pregiudizio all’altro, contemplato dall’art. 2043 c.c.

Di talché, ogniqualvolta un soggetto viola una regola di civile convivenza, in modo intenzionale o dovuta alla scarsa attenzione e coscienza incorre nella responsabilità extracontrattuale se ha provocato un danno definito per l’appunto “ingiusto”, perché frutto di una condotta contraria alla legge.

Rilevato l’aspetto generale, va chiarito che nel caso del mobbing, solitamente ricondotto alla responsabilità di tipo contrattuale , a mente dell’art 2087 c.c., un interessante spunto di riflessione sulla dimensione poliedrica della responsabilità l’ha fornito la stessa Corte di Cassazione che ha rilevato come, al fine di tale accertamento, si deve ritenere proposta l’azione extracontrattuale, ex  art. 2043 c.c., tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell’azione contrattuale, e quindi tutte le volte che il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana, ovvero chieda genericamente il risarcimento dei danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale.

Sulla scorta di detto orientamento interpretativo è agevole affermare che si deve ritenere proposta l’azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti al rapporto di impiego.

Il citato orientamento giurisprudenziale consente di affermare, pertanto, che le condotte mobbizzanti possono dar luogo ad una responsabilità di tipo extra contrattuale, fondata sul generale divieto del neminem laedere[1].

Le conseguenze prime di tale scelta si ripercuotono  sulla competenza dell’organo giudiziario, sulla prescrizione della richiesta del risarcimento (10 anni) o sull’onere della prova (il dipendente mobbizzato dovrà provare, oltre al fatto lesivo, al danno ed al nesso di causalità, anche l’elemento psicologico del mobber, ossia il dolo o la colpa da parte dell’autore dell’illecito) e  soprattutto sulla risarcibilità dei danni.

Ne consegue che possono agevolmente ricondursi ad ipotesi di illecito aquiliano tutte quelle condotte datoriali dolose e/o colpose che arrechino un danno ingiusto, anche di natura non patrimoniale e, dunque, nelle sue articolazioni di biologico e morale, al lavoratore, anche nell’ipotesi di imprevedibilità al momento del fatto dannoso.

Tuttavia, come detto, affinchè il mobbizzato ottenga il risarcimento dei danni da lui subiti sul luogo di lavoro, dovrà essere accertata la condotta ingiustamente lesiva e pertanto il lavoratore dovrà provare le singole condotte vessatorie, la loro intensità lesiva, l’intento persecutorio nei suoi confronti, la non esiguità del danno subito, l’esistenza del nesso di causalità tra le condotte lesive e il danno subito, ed infine l’entità del danno subito.

Pertanto non gli basterà addurre condotte generiche che dimostrano mancanza di stima, scarso impiego in mansioni qualificanti, richiami e rimproveri anche per motivi futili, se manca l’intento persecutorio, oppure se, pur essendoci l’intento persecutorio, l’intensità lesiva della condotta è lieve, e quindi il lavoratore non ha subito un danno obbiettivo e grave

Riconosciuto il danno, va distinto quello di natura patrimoniale da quello morale.

Il danno patrimoniale consiste nella ripercussione negativa che un soggetto subisce sul patrimonio a causa dell’illecito extracontrattuale (o contrattuale) e si compone di due voci:

– danno emergente, ovvero immediato e attuale che si realizza con la diminuzione delle proprie sostanze patrimoniale (ad es. nelle spese mediche affrontate a seguito delle sofferenze psicofisiche patite dalle condotte mobbizzanti);

– lucro cessante, ossia il mancato guadagno e la perdita di future opportunità lavorative o perdita di chance, non meramente potenziale o possibile ma ritenuta, secondo la comune esperienza, certa o in termini di elevata probabilità (ad es. nel caso di mobbing orizzontale che costringere la vittima a rifiutare ulteriore e certe opportunità lavorative, perché non si ritiene più capace, finendo per al avvantaggiare i colleghi interessati e autori del mobbing).

Mentre, diversamente, il danno non patrimoniale le si articola nel danno biologico, inteso come la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale; nel danno esistenziale definibile come il danno arrecato all’esistenza, cioè quel danno che si traduce in un peggioramento della qualità della vita, pur non essendo inquadrabile nel danno alla salute, che si esplica un’incidenza relativa sulle attività quotidiane e sulla vita di relazione; e del danno morale valutato come la sofferenza interiore soggettiva, ovvero come un turbamento dell’anima frutto di un dolore sofferto.

[1] Conformi, cfr, Cass. SS.UU. 04.11.1996, n.9522; Cass., Sez. Lav. 28.07.1998, n.7394; Cass., Sez. Lav. 14 .12.1999, n.900; Cass., Sez. Lav. 12.03.2001, n.99; Cass., Sez. Lav., 11.07.2001 n.9385; Cass., Sez. Lav. 29.01.2002, n.1147; Cass., Sez. Lav. 25.07.2002, n.10956; Cass., Sez. Lav. 05.08.2002, n.11756 e Cass., Sez. Lav. 23.01.2004, n.1248)