Mobbing militare
L’ambiente militare è tipico perché i rapporti sia con i superiori sia con i colleghi di pari grado sono caratterizzati dalla presenza di una severa disciplina, di una condizione di necessario rigore che fa parte del modello organizzativo delle Forze Armate.
Ne deriva che anche le normali dinamiche lavorative, rientrando in un sistema più autoritario, sono differenti rispetto a quelle riscontrabili negli altri ambiti.
In un ambiente chiuso come quello delle caserme, dove si rimarcano sempre più i doveri di fedeltà, di onore, di disciplina, di coraggio etc., è possibile che si configuri una lesione della dignità del militare, la cui dimostrazione è complessa, in virtù proprio della gerarchia, della subordinazione e del quasi cieco adempimento degli ordini che possono dar vita a comportamenti borderline in grado di superare facilmente il limite “fisiologico” della disciplina militare.
La difficoltà primaria consiste nel discernere le condotte arbitrarie e censurabili da quelle ordinarie e conformi alle regole previste per tutti gli arruolati, di comprendere il labile confine tra la disciplina e l’abuso di potere, ossia, con specifico riferimento al mobbing, di distinguere le basi oggettive delle vessazioni e del disegno persecutorio del mobber da quello che è fuorviante perché è presunto tale dalla mera rappresentazione soggettiva del militare vittima.
Su quest’ultima argomentazione, infatti, si è spesso negata la presenza di comportamenti mobbizzanti nelle Forze Armate, favorita per di più dal muro invalicabile di omertà tipico.
Nondimeno il fenomeno si verifica realmente e non può essere più ignorato, sebbene non sia facile riscontrarne l’esistenza, così come sia complesso arrivare alla sua dimostrazione.
In un ambiente permeato dal rigore, proprio della disciplina militare, intesa quale insieme di norme che regolano i rapporti tra militari e lo stesso status militare, stralciare
attacchi preordinati contro il militare, ripetuti, collegati tra loro e non casuali, è compito assai arduo ma non impossibile.
Invero, la giurisprudenza ha più volte mostrato un atteggiamento piuttosto cauto per non confondere il mobbing sia da tutte quelle attività ostili e rientranti nelle normali relazioni di gruppo sia dagli atti che non posso palesemente definirsi contrari alle finalità di legge, così ha precisato il Tar Lazio nella sentenza n.10977 del 14.11.2018: “anche atti di per sé leciti, possono essere considerati come tali qualora posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente nel perseguimento un disegno vessatorio e l’inoppugnabilità dell’atto non equivale a legittimità dello stesso; è anche vero, tuttavia, che tali atti devono rivelare un intento persecutorio, sicuramente non ravvisabile qualora gli stessi siano legittimi, in quanto posti in essere nel perseguimento dell’interesse pubblico e non di diversi fini. Così la fattispecie del mobbing non è configurabile quando negli stessi provvedimenti non siano presenti palesi aspetti eccesso di potere, nella forma dello sviamento di potere, per essere stati adottati per finalità persecutoria anziché per quella prevista dalla legge. Non è sufficiente, quindi, anche se è necessario, che gli atti siano illegittimi, ma è anche indispensabile che l’insieme o la combinazione di essi denotino l’intento persecutorio perseguito da parte di chi ha adottato gli atti nei confronti del dipendente”.
Ma c’è anche giurisprudenza, il Tar Molise nella sentenza n. 23 del 19.11.2016, che ha messo in evidenza gli elementi da comprovare per dimostrare le condotte da parte dell’Amministrazione volte a screditare il militare, unite dall’intento vessatorio e da un antecedente progetto idoneo ad annientarlo: le azioni disciplinari reiterate e poi richiamate in autotutela, il mancato tempestivo pagamento di rimborsi per missioni, i trasferimenti per dubbie incompatibilità ambientali con superiori, i dinieghi di qualunque tipo frapposti a qualunque lecita richiesta del militare diretta al proprio superiore, la negazione senza motivi di accesso agli atti e costrizione del dipendente a rivolgersi alla Commissione per l’Accesso la quale a sua volta stabiliva l’obbligo di ostensione, i diversi provvedimenti sanzionatori adottati dall’Amministrazione nei confronti del militare poi annullati in sede giurisdizionale, i rapporti valutativi contenenti giudizi non favorevoli al militare annullati anch’essi in via giurisdizionale dallo stesso Tar Molise, che aveva rilavato come il conteso fosse “obiettivamente connotato da accesa conflittualità che superava la fisiologica dialettica tra differenti gradi gerarchici e le eventuali diversità caratteriali delle persone, costituendo, semmai, espressione di una logica di contrapposizione in cui emergeva un atteggiamento, da parte degli ufficiali valutatori, pregiudizialmente negativo nei confronti del ricorrente e che verosimilmente era presente anche al momento in cui sono stati elaborati gli impugnati giudizi valutativi”.
Tuttavia, non basta fornire la prova delle azioni nefaste dell’Amministrazione nei riguardi del militare, ma occorre anche la dimostrazione più complessa del nesso causale tra i fatti accertati in corso di causa e il danno che ne è scaturito a carico della persona che lo rivendica, ai sensi dell’art. 2697 cc.
Dunque, a prescindere dalla maggiore o minore forza d’animo e di carattere del soggetto, senza che si generi uno stato di ansia in relazione allo svolgimento della prestazione lavorativa dovuto alla presenza di una situazione ostile, nonché senza una sorta di consapevolezza in ordine alla disistima da parte del proprio ambiente lavorativo che ne mina l’autostima ed è fonte di grave sofferenza, specialmente in tale contesto, non si può parlare di mobbing e non può esserci il relativo danno, condizione imprescindibile per adire l’autorità giudiziaria.