Suicidio nelle forze dell’ordine

Il lavoro nelle forze dell’ordine è senza dubbio un lavoro che presenta rischi ed è ad alto contenuto stressante: i militari devono dimostrarsi sicuri ed efficienti e sono costretti ad affrontare situazioni non facili e ad alta pericolosità. Durante l’espletamento dell’attività lavorativa possono anche verificarsi casi di infortunio o di morte. Anche in quest’ambito lavorativo è facile rilevare situazioni di stress legate a rapporti interpersonali tra colleghi e superiori gerarchici. Vista l’alta rischiosità lavorativa e la stretta correlanza di rapporti interpersonali appare necessario chiedere un ulteriore aiuto alle istituzioni affinché si riesca a prevenire gli effetti dannosi e pericolosi che possono subentrare durante l’attività lavorativa. Per far comprendere l’entità della problematica si fa riferimento a vicissitudini accorse al corpo di polizia penitenziaria. Parrebbe che gli agenti di polizia penitenziaria subiscano tra le cinquemila e le seimila aggressioni da parte dei detenuti e tra le seimila settemila colluttazioni nel corso dell’anno.
Alla luce di ciò appare sconcertante che non vi sia una attenta, scrupolosa assistenza di natura psicologica che possa in un certo qual modo supportare le problematiche insorte durante l’espletamento dell’attività. La carenza di un supporto psicologico, certo non aiuta ad evitare quel crollo mentale che porta vari dipendenti a compiere atti terribili e tragici come quello di togliersi la vita. Il fenomeno dei suicidi nelle forze armate ha subito un grave aumento negli ultimi 20 anni
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Appare il caso di notare che le istituzioni spesso tendono a coprire e giustificare le problematiche su esposte. Questo modus procedendi, non può che creare disagio, confusione e non permette la possibilità di dare una pronta risoluzione alle problematiche. Ogni qualvolta un militare si toglie la vita a causa di vicissitudini lavorative, le istituzioni non solo perdono un valido componente, ma dimostrano la loro inefficienza e la grave negligenza. Dunque appare necessario rimodulare il sistema salute/ protezione nell’ambito lavorativo che non può essere solo delegato al testo unico sulla sicurezza sui posti di lavoro. Il sistema penitenziario o qualsiasi sistema militare nel quale è prevista una gerarchia, deve essere meglio monitorato e controllato. Gli interventi che potrebbero essere effettuati devono mirare tutti all’ascolto periodico e alla osservazione continua. Importante apparirebbero le creazioni di commissioni ad hoc che, unitamente alla commissione medica ospedaliera, possano monitorare in maniera più approfondita la problematica legata allo stress lavorativo. Altro punto di rilevante importanza è la preparazione e la specializzazione. Il mobbing, le vessazioni, i maltrattamenti, le denigrazioni sono oggetto di attento studio. Appare dunque necessario che all’interno delle forze dell’ordine dell’esercito e nei corpi armati si elargisca tra i militari una conoscenza dettagliata del fenomeno e soprattutto delle sue conseguenze.
È stato anche condiviso con il Comando Generale il progetto LOCI (LARGE ORGANISATION COMPETENCES INDICATOR) con l’intento di puntare sul prevenire quel terribile atto che è il suicidio. Tra le iniziative legislative, inoltre, appare rilevante la proposta di realizzazione dell’istituzione dell’osservatorio nazionale per il sostegno al supporto psicologico del personale delle forze di polizia. Dunque rimaniamo in attesa che qualcosa si muova in meglio. Esemplare il prodigarsi del corpo della Guardia di Finanza che ha compiuto significativi progressi attraverso una convenzione effettuata con l’ordine nazionale degli psicologi, ha promosso l’avvio di centri di ascolto presso i comandi regionali del corpo e ha diradato una direttiva del comandante generale atta a sensibilizzare i comandanti del reparto a una maggiore attenzione alle problematiche del personale dipendente. Dunque rimaniamo in attesa che qualcosa si muova in meglio.

CHI ERA UMBERTO?
Umberto era un assistente-capo della polizia penitenziaria. Per questo motivo era abituato ogni giorno a frequentare quelle carceri dove incontrava gente di svariato genere. Nonostante l’ambiente in cui viveva era molto duro e rude, lui amava la sua divisa, amava il suo lavoro. Aveva stretto ottime relazioni con i colleghi (almeno con alcuni di essi), i quali lo ricordano ancora oggi con affetto vista la sua disponibilità e la sua prontezza nell’aiutare chiunque. Umberto era molto fiero della sua divisa, aveva svolto 32 anni di servizio sempre con orgogliosa dedizione. Purtroppo non tutti i colleghi e non tutti i superiori gerarchici incontrati durante l’espletamento dell’attività lavorativa gli hanno dimostrato amicizia e rispetto. Leggendo le sue lettere, si percepisce la sofferenza a seguito dei numerosi sfottò delle critiche mossegli e degli ingiusti procedimenti disciplinari a cui era stato sottoposto. I rimproveri assai frequenti circa il suo stato fisico lo avvilivano sempre di più e lo facevano sentire poco all’altezza del lavoro assegnatogli.
Qualche amico che raccoglieva le sue doglianze gli dava conforto e lo spronava a trovare la serenità. Ma questo non è bastato di fronte a ulteriori episodi che l’hanno devastato. Un maledettissimo febbraio, qualche giorno prima del suo compleanno, Umberto ha deciso di recarsi all’istituto penitenziario di prelevare la pistola che non aveva toccato per moltissimi anni, fermarsi nel parcheggio per qualche ora nella sua macchina e infine compiere il gesto estremo pensando di porre definitivamente fine alle sue sofferenze. Le sue sofferenze però sono uscite da quella macchina e hanno colpito tutte le persone che lo amavano davvero, la mamma e il padre non si danno pace per quel gesto scellerato. I veri amici e colleghi che lo sostenevano, ancora oggi non credono a quella che è la realtà, cioè che Umberto non esiste più. Umberto non esiste più forse per leggerezza, forse per trascuratezza e nella mente di qualcuno c’è sempre l’idea che questa tragedia poteva essere evitata. Non si sa di preciso come, ma magari con un ascolto in più, con uno sfottò in meno e con maggiore attenzione di chi doveva vigilare e non lo ha fatto. Oggi partiamo dall’amara realtà che Umberto non potrà mai più tornare in vita, ma il pensiero di Umberto, la sua voglia di combattere e di aiutare deve andare al di là del gesto che ha compiuto. Ragion per cui si è creata questa associazione che deve dare una mano a chi come lui era in difficoltà. Una pistola non può cancellare tante vite.